L’accoglienza che non c’era, gli sgomberi senza alternative di Alemanno e Marino

Non solo via Curtatone. Se il blitz all’alba nel palazzo occupato dietro la stazione Termini ha meritato l’attenzione della stampa nazionale, con in primo piano gli scontri pesanti tra forze dell’ordine e sgomberati e il dibattito sul tema accoglienza sempre caldo, non è certo da ieri che Roma soffre l’assenza di piani e strategie in grado di prevenire “bombe sociali”. Via Curtatone non è un’eccezione. E la puntuale assenza di soluzioni degne da offrire alle famiglie di senza casa, sgomberati, occupanti, rifugiati, è storia che precede e non di poco l’amministrazione del Movimento Cinque Stelle.
Proviamo dunque a rinverdire la memoria alla città, perché di sgomberi cosiddetti “forzati” – secondo il diritto internazionale senza protezione legale e alternative valide per gli interessati – è (stata) piena Roma, in un perenne ritorno di episodi emergenziali figli di vuoti profondi nell’azione politica, a tutt’oggi da colmare. Ne ricordiamo due in particolare, simbolici, avvenuti sotto le giunte precedenti la sindaca grillina, che raccontano di un Comune assente ben oltre il colore politico. Fotocopie o quasi di via Curtatone.
Marino e Ponte Mammolo
I portavoce di Medu accorsi sul posto lo definirono “una vera vergogna”. Era l’11 maggio 2015 e al governo di Roma c’era il Pd di Ignazio Marino. Sempre all’alba le ruspe radevano al suolo le “case” di lamiere e compensato della baraccopoli di via delle Messi d’Oro. Anche qui 200 rifugiati per lo più di origine eritrea restavano senza alloggio. Allora come oggi non ci fu una soluzione alternativa (credibile) sul piatto, se non per i nuclei fragili. A bambini, anziani, disabili, donne incinta l’ex assessore al Sociale Francesca Danese trovò un posto letto nel circuito di accoglienza istituzionale. Per tutti gli altri restò solo la strada. E dagli sfollati di Ponte Mammolo nacque il presidio umanitario per “transitanti” messo in piedi dai volontari dell’associazione Boabab, ancora presente in piazzale Maslax a pochi metri dalla stazione Tiburtina dopo due anni di appelli al Comune di Roma. Due anni di tende montate in strada per accogliere i rifugiati eritrei diretti verso il nord Europa, quelli nella Capitale solo di passaggio. Ad oggi non vi è ancora una struttura di riferimento che li accolga nonostante le innumerevoli promesse dell’amministrazione, Marino prima, Raggi poi.
Alemanno e l’ambasciata somala
Febbraio 2011. Cento rifugiati somali vengono allontanati dall’ambasciata occupata di via dei Villini, un edificio fatiscente che li ospita da anni in condizioni di totale abbandono. Al governo di Roma la destra di Gianni Alemanno. Il blitz scatta a seguito della violenza sessuale denunciata da una giovane che in quelle mura ha subito uno stupro. La polizia ferma tre uomini, e in contemporanea il Campidoglio approfitta per sgomberare tutte le famiglie dall’ex sede diplomatica, da tempo nella lista degli stabili degradati “da ripulire”, ma senza l’ombra di soluzioni alloggiative alternative. Il quadro si ripete: le associazioni umanitarie sono sul posto per aiutare gli sfollati con un presidio sanitario. Stessi appelli, stesse denunce, stessi rimpalli di responsabilità e giochi delle parti.
Sull’accoglienza “deve intervenire il governo” tuonava l’allora delegato alla Sicurezza Giorgio Ciardi. “Il circuito dell’accoglienza capitolino è saturo” ripeteva la titolare al Sociale Sveva Belviso. “E’ necessario trovare una sistemazione dignitosa per i circa cento somali completamente estranei allo stupro avvenuto nella struttura” sottolineava Laura Boldrini, presidente della Camera, al tempo portavoce del Consiglio della Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Denunciava poi la presidente dell’associazione delle donne somale in Italia, Osman Lul: “Nessuno del Comune si è fatto vivo per dirci dove andare”. Il freddo peggiorava le cose. Per giorni le stazioni della metro sono state l’unico rifugio disponibile. “Ci appelliamo al ministro Maroni affinché venga emanato un decreto legge sui rifugiati – dichiarava ancora Belviso – nella fattispecie sul sistema dell’accoglienza, che stabilisca una volta per tutte competenze specifiche e modalità con cui debba essere gestita questa problematica”. Sei anni dopo pochissimo è cambiato.
L’emergenza casa oggi
I rifugiati che vivono negli edifici occupati della città sarebbero attualmente circa 3mila, e 74 i palazzi da sgomberare secondo la lista inserita nella delibera 50 dell’aprile 2016 firmata dall’ex commissario straordinario del Campidoglio Francesco Paolo Tronca. Un provvedimento che fissava le azioni da intraprendere per rispondere all’emergenza abitativa tramite i fondi stanziati dalla Regione Lazio (160 milioni di euro nel 2014, 40 milioni con l’ultimo provvedimento dello scorso maggio).

Da via Collatina 385 al Selam Palace di via Arrigo Cavaglieri, l’agenda ha messo nero su bianco gli stabili da liberare. Via Curtatone era tra questi. Ma in contemporanea l’amministrazione capitolina non si è mossa per trovare alloggi alternativi con i suddetti finanziamenti regionali, anche qui con polemiche annesse e rimpalli di responsabilità. E così sono arrivati i blindati della Polizia, ancora una volta senza opzioni valide per i nuclei familiari. Una storia che si ripete, agli onori della cronaca quando si fa emergenza, dimenticata quando sulle vittime dell’inerzia politica, stavolta i rifugiati di via Curtatone, si abbassano i riflettori.

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